Come fanno paura gli horror: fenomenologia dell’orrore

Il genere horror è presente in diverse forme d’arte e fin dalla sua nascita è stato in grado di spaventare e turbare gli animi. Ci sono talmente tante opere di questo genere (principalmente letterarie, cinematografiche e videoludiche) che sarebbe impossibile analizzare come faccia ognuna di esse a trasmettere il tipico sentimento dell’orrore; è però possibile astrarre, dalla moltitudine caotica di opere, alcuni modelli comuni tramite i quali queste tentano di raggiungere il loro obiettivo di spaventare. Questi modelli sono essenzialmente quattro: si può fare horror “tecnico”, grafico, psicologico o filosofico.

Il primo caso è quello dei cosiddetti jumpscare (letteralmente “spavento che ti fa saltare”), ossia quegli espedienti (tipici di film e videogiochi) che consistono nel far apparire improvvisamente e bruscamente qualcosa o qualcuno quando lo spettatore non se lo aspetta. Si tratta di un modo puramente tecnico per spaventare, in quanto non riguarda il contenuto della storia bensì un elemento formale, esteriore a essa.

Bisogna annoverarlo tra i modi di fare paura perché è onnipresente nei moderni film e videogiochi dell’orrore (si pensi al gioco Five nights at Freddy’s, interamente basato sui jumpscare). Tuttavia presenta un evidente problema: trattandosi di paura momentanea, causata da un evento improvviso che è comunque limitato nel tempo, il jumpscare non lascia realmente qualcosa allo spettatore, il quale se ne può benissimo dimenticare alla fine del film, e perdipiù non può fare paura una seconda volta in quanto ormai ce lo si aspetta. Per questo motivo l’horror degno di nota è quello degli altri tre casi, i quali lasciano un segno duraturo.

Il secondo caso è quello dell’horror grafico, in cui l’orrore è causato da un elemento visivo raccapricciante e inquietante. Questo tipo di horror è molto presente nei film, dove prende il nome di splatter, ma può essere realizzato anche in letteratura tramite una descrizione particolarmente cruda. Tuttavia, perché sia effettivamente horror, l’elemento splatter deve suscitare orrore (in modo artistico) e non solo disgusto, nel senso che deve trasmettere anche le emozioni tipiche dell’arte horror. Esso nasce quindi dal contenuto di una storia.

Il terzo caso, ossia l’horror psicologico, è il più antico, in quanto presente già nei racconti di Edgar Allan Poe, considerato il precursore del genere horror. Questo tipo di orrore si basa sulle paure dei personaggi, in cui ci si può facilmente immedesimare. L’elemento horror è dato dal fatto che noi viviamo, con i protagonisti, un’esperienza fittizia ma verosimile: la storia non fa altro che trasporre le nostre stesse paure. Si tratta quindi di orrore che nasce da una riflessione psicologica sulla storia.

Per fare un esempio, Il gatto nero (uno dei racconti più celebri di Edgar Allan Poe) racconta la storia di un uomo, sposato e con la passione per gli animali, che, a causa del suo alcolismo, cambia carattere e inizia a picchiare la moglie e maltrattare gli animali. Un giorno, da ubriaco, uccide il suo amato gatto nero e a causa di ciò sviluppa sensi di colpa che lo fanno progressivamente impazzire, fino a uccidere la moglie. Una storia del genere potrebbe realmente accadere ed è questo che suscita l’orrore. Dopotutto Edgar Allan Poe, che aveva problemi con l’alcol, si è ispirato direttamente a se stesso per questo racconto.

Il quarto e ultimo caso è invece l’horror filosofico, che discende dall’opera di Howard Phillips Lovecraft. Lovecraft parte dal presupposto che, al cospetto dell’universo infinito, l’uomo è minuscolo, motivo per cui non potrà mai conoscere la totalità di quest’ultimo e qualcosa di inspiegabile potrà sempre risiedere nell’ombra. Si tratta quindi di orrore che nasce da una riflessione filosofica sulla finitezza dell’uomo e che giustifica la possibilità di fenomeni che vanno oltre la nostra comprensione. Lovecraft, dunque, è un precursore dei moderni horror con creature paranormali ed egli stesso ha dato vita a una vasta gamma di mostri rimasti nella storia, quali Cthulhu. L’horror lovecraftiano, per questa sua riflessione esistenziale, viene anche chiamato “horror cosmico”.

Un esempio di quest’ultimo caso è il suo racconto Dagon, in cui il protagonista, prima di suicidarsi, scrive la sua storia. Durante la guerra, era riuscito a fuggire da una nave tedesca con una scialuppa e, vagando per il mare, si era addormento per poi risvegliarsi su un’isola misteriosa. Ispezionando il luogo, aveva avvistato un enorme vortice marino da cui emergevano gli arti di una creatura imponente. Il protagonista ne rimane talmente impressionato che, nel presente, sogna ancora la creatura, ma ciò che lo spaventa di più – e che lo porta al suicidio – è il fatto che un mostro del genere potrebbe un giorno spazzare via l’intera umanità.

In conclusione non rimane che chiarire che questi quattro modelli generali di fare horror – che si possono intendere come una sorta di categorie in senso kantiano – possono benissimo essere ampliati o perfezionati, non trattandosi di una schematizzazione ufficiale di alcun tipo, bensì di una personale operazione di catalogazione, che permette inoltre di comprendere come i maestri dell’horror abbiano influenzato tale genere e come esso possa essere profondo tanto quanto gli altri generi.

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